Terminata la terza media, trascorsi le vacanze esplorando i monti circostanti casa. Al monte Tovo, al Luvot, occasione per rivedere Marisa, compagna di scuola che trascorreva l'estate in baita con i genitori allevatori. Oltre la cima del Luvot, una dorsale con qualche passaggio di roccia era stimolo per esplorare oltre, verso il Gavala, montagna impervia e solitaria, dove si diramano due creste. Una verso la Res e l’altra, formando un ampio arco, sino all’imponente Monte Barone. Un mondo da scoprire che mi affascinava e mi trasmetteva quel senso di avventura e libertà. Nelle scorribande, che iniziavano pedalando lungo i tornanti di Foresto o Noveis, coinvolgevo amici i quali, dopo un paio di esperienze declinavano i successivi inviti. L'estate successiva, il richiamo della montagna non si era attenuato. Tutt'altro, il desiderio di salire le cime che caratterizzano la Valsesia si faceva più forte, così iniziai ad esplorarle raggiungendo in autostop le località di fondovalle. Talvolta, programmavo la gita di due giorni, dormendo in una vecchia tenda militare senza fondo. Il papà preoccupato delle mie escursioni solitarie, mi iscrisse al CAI e mi affidò al suo amico Battista, reggente della sottosezione di Borgosesia, il quale mi introdusse nel mondo dei 4000. D'allora, iniziai trascorrere le settimane con impazienza, aspettando l’escursione del week end per "bardarmi" di piccozza e ramponi e vivere l’emozione di legarsi in cordata. Di ritorno dalla montagna ero sempre felice e gratificato, ad eccezione di una volta, quando la frustrazione fu talmente forte che il ricordo è ancora vivido: il sole splendeva in un cielo cobalto e anziché essere in qualche rifugio in quota, ero all’alpe Meggiana per la festa dell’Alpe. Battista, vedendomi mogio, mogio, mi apostrofò con modo rude: “per il tuo compleanno, faremo una salita impegnativa”, ma non disse la meta. La domenica successiva salimmo la cresta Nord del Tagliaferro e poi si susseguirono le salite alla capanna Margherita, al Gran Paradiso, alla Grober, ... e ogni volta, pensavo: “Non può essere questa la salita promessa.” Così, passò il compleanno, il mese di agosto e anche settembre se ne stava andando, ed io deluso, rimasi con la bramosia di cimentarmi su una via impegnativa. Avevo fatto qualche arrampicata su massi con Piero, eccelso ed elegante arrampicatore, che mi insegnava i rudimenti: i nodi, la discesa in corda doppia, la tecnica Dulfer, ma le arrampicate impegnative lungo creste o pareti di roccia e ghiaccio rimasero nei miei sogni, sino a fine settembre quando Battista, sempre con il consueto modo rude proferì, domenica si va al Monte Leone, parete Nord.
A distanza di anni i ricordi si sono sfumati, ma alcuni momenti sono rimasti vivi e nitidi: la cena al rifugio, la sveglia nel cuore della notte e sotto la crepaccia terminale, dove Battista tribolava per oltrepassarla. Poi il ghiaccio vivo che rallentava la salita, i bivacchi, il freddo ...
Eravamo in quattro: Battista il capocordata di quarantesi anni, Osvaldo di venticinque, Tiziano di diciotto ed io di sedici, appena compiuti. Arrivammo in vetta nel pomeriggio inoltrato, avvolti dalla fitta nebbia. Dopo una breve sosta per bere e mangiare un pezzo di cioccolato, proseguimmo lungo la cresta della via normale che scende al passo Fné, passaggio obbligato per l’alpe Veglia, da dove eravamo partiti. Ma con visibilità pressoché nulla, ci abbassammo troppo dal filo di cresta finendo sopra uno strapiombo della parete Est - che precipita sul lago d’Avino - proprio quando ci colse il buio. La decisione di bivaccare venne presa insindacabilmente dal più esperto. D’altronde, in quella situazione e considerando l’inesperienza di tre membri della cordata, era l’unica cosa da fare. Su una piccola cengia, ancorati alla corda fissata a due chiodi, trascorremmo la notte, lunga e molto, molto fredda: vestivo con pantaloni alla zuava di velluto, una camicia di cotone, un maglioncino di acrilico e una giacca a vento non imbottita!
Al mattino, sempre avvolti dalla nebbia, credendo di aver imboccato la cresta sbagliata, risalimmo verso la vetta per ridiscendere dalla parte opposta. In cima iniziò nevicare e il tentativo di discesa lungo la cresta Ovest si arenò per la visibilità nulla e le difficoltà sempre maggiori per via delle rocce impastate di neve. Battista impose un secondo bivacco nonostante fossero solo le ore tredici ed io, per l'inesperienza e soprattutto per la timidezza non osai esternare la contrarietà alla decisione che avrebbe potuto avere un tragico epilogo.
Se lunga era stata la notte precedente, il secondo bivacco fu un incubo. Prima, il pomeriggio nel bianco silenzio rotto solo dal battito dei denti. Negli zaini non era rimasto ne cibo, ne bevande, e la sete non era alleviata ingurgitando la neve che incessantemente cadeva lentamente come il trascorrere delle ore.
Poi la notte, appiccicati l’un l’altro cercando nel compagno un minimo di tepore. Di tanto in tanto ci accertavamo se eravamo assopiti o passati a miglior vita. Solo un po' di trambusto quando mi calarono in parete per espletare necessità fisiologiche.
Quando finalmente il buio si dissolse, per la terza volta risalimmo in vetta per tentare da discesa lungo la cresta percorsa parzialmente il primo giorno, consci che sarebbe stata l’ultima possibilità che ci rimaneva per sopravvivere. Nonostante avessi sofferto maggiormente il freddo rispetto ai compagni, ero il meno provato. Forse perchè i pensieri erano rivolti solo a salvare la pellaccia, mentre Battista, quale esperto di montagna e capocordata, sentiva la responsabilità verso tutti noi. Osvaldo, preoccupato per i due bambini piccoli a casa, percepiva forte il peso di padre. Tiziano invece, si era fatto sopraffare dal pessimismo. Comprensibile, era ricominciato a nevicare copiosamente e il procedere era lento per la cautela nei movimenti e per le forze che venivano meno. Tuttavia, lentamente scendemmo tenendoci sempre sul filo di cresta - per evitare l’errore commesso il primo giorno - al fine di raggiungere l’intaglio del passo Fné, che però non lo individuammo. Dopo ore di tensione su roccia marcia e viscida, ci trovammo sul ghiacciaio Alppjergletscher quando finalmente cessò di nevicare. Rimanevamo comunque in una situazione molto critica: su ghiacciaio sconosciuto e con nebbia fitta, era difficile individuare il percorso ed era pericoloso. Infatti, Battista, apripista, finì più volte nei crepacci coperti dalla neve fresca. Il procedere a caso, senza sapere se fosse la via giusta, spremeva le ultime energie fisiche e psicologiche.
Fortunatamente, all’improvviso la nebbia si diradò e con maggiore visibilità si sollevò il morale e con esso la forza per continuare a scendere. Quando finalmente scorgemmo i prati del fondo valle ci sentimmo salvi e tutti esclamammo: è fatta! Nel primo ruscelletto che incontrammo, avidamente bevemmo per lenire la gola arsa. Poi, con un ultimo sforzo raggiungemmo la strada del Sempione in territorio svizzero.
L'attesa che transitasse qualche auto per chiedere un passaggio si prolungò oltre la sopportazione dei compagni, i quali decisero di incamminarsi lungo la statale. Se durante l’avventura - consapevole di non avere nessuna competenza per esprimere il mio pensiero - avevo accettato passivamente tutte le decisioni, in quella circostanza, non essendo più in ambiente alpinistico o forse per lo sfinimento, mi scrollai della timidezza e sbottai: “No, non in quella direzione, se proprio dobbiamo proseguire, facciamolo nella direzione giusta, verso l’Italia”, e abbandonando i compagni, attraversai la carreggiata per incamminarmi nella direzione opposta alla loro.
Il caso volle, che poco dopo transitasse nella mia direzione un volontario del soccorso alpino che ci condusse a Iselle, dove trovammo famigliari e amici accorsi temendo il peggio.
A Borgosesia suonarono le campane a festa. Era il 26 di settembre del 1971 e la temperatura era scesa a meno quindici gradi.
Per tutta la settimana appena trascorsa a Vercelli, la nebbia è stata talmente fitta che mi sembrava di essere sul Monte Leone. Ma oggi, quando in autostop sono arrivato a Lenta è stato come uscire da un mondo grigio e cupo ed entrare nella vita. Il sole brillava nel cielo e il monte Barone già imbiancato sembrava più maestoso. Mi è sembrato di rinascere: la stessa sensazione vissuta scendendo dal Leone con la tormenta, quando il cielo si è aperto e abbiamo visto il fondovalle e la salvezza.
Commenti
Posta un commento